Il Parco Archeologico didattico del Livelet sorge sulla sponda occidentale del lago di Lago, nel Comune di Revine Lago, in provincia di Treviso. La località si trova in una valle di origine glaciale, ai piedi delle Prealpi (225 m di altitudine), circondata da un ambiente ricco di biodiversità, Sito di Importanza Comunitaria per la Rete Natura 2000 ed incluso nel recente Parco dei Laghi della Vallata.
La struttura è stata inaugurata il 12 maggio 2007 e dal 2009 la gestione è affidata al Comitato Provinciale UNPLI Treviso, in collaborazione con il Comune di Revine Lago e il Consorzio Pro Loco Quartier del Piave. L’obiettivo è quello di valorizzare il vicino sito preistorico di Colmaggiore di Tarzo, scoperto nell’istmo fra il lago di Lago e il lago di Santa Maria e l’ambiente naturalistico dei laghi.
Il Parco Archeologico didattico del Livelet si compone di un’area museale all’aria aperta, in cui si trovano le ricostruzioni delle palafitte, e di altre strutture a servizio della didattica e dei visitatori. Il villaggio ricostruito si trova proprio in riva al lago ed è inserito in un ambiente naturale simile a quello in cui sorgevano le palafitte preistoriche. Alle sue spalle trovano spazio diverse aule per le attività didattiche, un bookshop, un parco giochi e un’area pic-nic. Nei giardini si snoda anche un breve percorso con pannelli dedicati agli aspetti ecologici delle aree lacustri. Alcune delle aree didattiche si trovano all’aperto e sono riservate allo svolgimento di laboratori didattici e dimostrazioni di tecnologia antica, che vanno ad arricchire la visita guidata con un’esperienza pratica.
Note: in biglietteria è consultabile una mappa tattile per orientarsi all’interno del parco.
Il Parco Archeologico Didattico del Livelet è nato per valorizzare la scoperta del sito di Colmaggiore di Tarzo, un importante insediamento preistorico in ambiente umido.
I primi indizi della presenza di un sito archeologico risalgono al 1923, quando, in occasione dei lavori per lo scavo di un canale di collegamento fra i due bacini lacustri, fu rinvenuta una spada in bronzo. Nel 1987, altri interventi di escavazione per l’estrazione della torba, misero in luce i primi resti di strutture abitative e manufatti in pietra, osso, ceramica e metallo. In questa occasione, venne allertata la Soprintendenza Archeologica del Veneto, che promosse una prima campagna di sondaggi nel 1989, seguita da due di scavo nel 1992 e nel 1997.
I reperti raccolti, appartenenti a diverse classi di materiali, hanno contribuito alla datazione del sito e alla comprensione della vita quotidiana delle comunità che lo avevano abitato a partire dal tardo Neolitico, nella successiva età del Rame e all’inizio dell’età del Bronzo, quindi tra fine del IV e gli inizi del II millennio a.C., fra 6000 e 3500 anni fa. Il ritrovamento di due spade databili alla Media Età del bronzo (XV secolo a.C.) e un pugnale risalente al Bronzo Recente (XIII secolo a.C.), testimoniano anche una frequentazione della zona successiva all’abbandono del villaggio.
Il museo all'aperto del parco del Livelet è rappresentato dalla ricostruzione di tre palafitte dedicate rispettivamente al Neolitico, all’età del Rame e alla prima età del Bronzo.
Il vantaggio che offrono le ricostruzioni è quello di mostrare ai visitatori abitazioni e oggetti paragonabili a quelli antichi, realizzati con le stesse tecniche e materiali disponibili in Preistoria e inseriti in un contesto ambientale simile a quello in cui venivano prodotti in passato. Questo le rende un potente mezzo di divulgazione scientifica e un efficace strumento didattico, capace di appassionare il pubblico di ogni età.
Dal sito di Colmaggiore di Tarzo provengono pochi resti attribuibili alle abitazioni, quindi la ricostruzione del villaggio si è basata sugli studi delle tipologie di insediamento riconosciute in siti archeologici coevi dell'Italia Settentrionale, dove le condizioni di conservazione si sono rivelate migliori, nonché su confronti etnografici.
Le strutture rappresentano allo stesso tempo tre diverse tipologie di insediamento preistorico, utilizzate in ambiente umido, basate sulle informazioni fornite dai resti archeologici ben conservati del sito di Fiavè (TN): una palafitta è completamente costruita sulla terraferma, una è realizzata metà su terra e metà su acqua e una è sostenuta da pali infissi direttamente sul fondo del lago. I legnami utilizzati per le ricostruzioni come il castagno, la quercia, il nocciolo e il corniolo, sono per la maggior parte compatibili con l'ambiente naturale e con i ritrovamenti archeologici dell'area. Le strutture lignee portanti o destinate a rimanere immerse nell'acqua sono state invece realizzate in larice, scelto per la sua resistenza e durata fin dalla Preistoria, ma non presente all’altitudine in cui si trova il sito. Questa scelta fa parte di alcuni compromessi, adottati per rendere le palafitte sicure per i visitatori, più resistenti e più durature.
I tronchi in Preistoria venivano tagliati con asce e accette e lavorati con varie forme e spessori a seconda della parte della palafitta per cui venivano utilizzati. Con ingegnosi sistemi a incastro, scanalature o fori, i vari componenti venivano assemblati l’uno con l’altro o collegati con corde in fibre vegetali. Le palafitte, a base quadrangolare, erano orientate secondo la direzione dei venti prevalenti, in modo che dalle aperture superiori potesse uscire facilmente il fumo proveniente dal focolare. Il pavimento delle palafitte su terra era realizzato in semplice terra battuta, a volte con l’aggiunta di ciottoli, mentre quello delle palafitte sospese sull'acqua e su bonifica era formato da travi orizzontali e materiale vegetale, con la zona del focolare isolata dal legname.
Le pareti delle palafitte erano formate da fasci di canne palustri, rivestiti da un intonaco ottenuto mescolando argilla, paglia e sabbia, mentre i tetti erano realizzati con strati di canne, che nelle ricostruzioni del Livelet raggiungono lo spessore medio di 30 cm. I giacigli, costituiti da uno strato di ramaglie ricoperte di pelli, stuoie o tessuti, erano posizionati sempre nella parte bassa dell’abitazione, meno fumosa. Gli oggetti e gli arredi interni delle ricostruzioni, sono stati realizzati ispirandosi ai ritrovamenti archeologici di Colmaggiore di Tarzo, ma anche ad alcuni reperti provenienti da altri siti, ritenuti rappresentativi dei periodi documentati.
Entrando nella prima palafitta, nel nostro caso costruita completamente su terra, si viene trasportati 6000 anni fa, in pieno Neolitico, quando le rive del lago furono insediate per la prima volta. In Italia i siti neolitici sono datati circa fra 8000 e 5000 anni fa, quando il clima era ormai simile a quello dei nostri giorni e perciò anche l’ambiente naturale. Il Neolitico è caratterizzato da molte innovazioni, che si svilupparono a partire dal Vicino Oriente per poi diffondersi gradualmente nel resto dell’Europa e dell’Asia. Per la prima volta i gruppi umani cominciarono a produrre una parte del proprio cibo grazie all'agricoltura e all'allevamento e diventarono sedentari. Sorsero quindi i primi villaggi fatti di capanne o, nelle zone umide, di palafitte, in cui potevano vivere centinaia di persone. Sulla spinta di queste novità, si iniziarono a produrre nuovi strumenti e usare nuove tecnologie. I gruppi umani continuavano a sfruttare il bagaglio di conoscenze che aveva maturato nel Paleolitico, a praticare la caccia, la raccolta, la scheggiatura della selce, usavano ancora materie prime come l’osso, la pelle, le fibre vegetali, il legno, ma a tutto questo si aggiunsero la lavorazione e la cottura dell’argilla per ottenere oggetti in ceramica, l’invenzione della tessitura e l’uso della pietra levigata. Proprio per la presenza di questo materiale fra i ritrovamenti archeologici, il Neolitico venne chiamato dagli studiosi “Età della pietra nuova”, unendo le parole greche nèos, "nuovo" e lithos, "pietra".
Le prime specie vegetali coltivate furono cereali come farro, frumento, orzo, miglio e legumi come lenticchie e piselli. Nelle fasi più recenti si aggiunsero vite, papavero e lino. Per dissodare il terreno venivano usate zappe di legno, talvolta rinforzate con una punta in osso. Cereali e legumi venivano consumati in zuppe o trasformati in farine per la produzione di focacce, triturando i semi con macine di pietra. Le macine erano realizzate scegliendo una pietra ruvida, come il granito, con una forma leggermente incavata, sulla quale veniva sfregato un macinello fatto con un ciottolo impugnato fra le mani, portato avanti e indietro sulla superficie della macina, aumentando la pressione con il peso del corpo; quando la macina veniva sfruttata a lungo l’incavo si approfondiva assumendo una tipica forma “a sella”. Nonostante venisse praticata l’agricoltura, le comunità neolitiche continuavano a raccogliere frutti spontanei, bacche, radici, funghi, vegetali commestibili e molluschi.
La domesticazione di alcune specie animali selvatiche ha portato all’allevamento di caprini (dall’egagro, una specie di capra selvatica originaria dell’Asia Centrale), ovini (dal muflone asiatico), bovini (dall’uro, un bovino selvatico preistorico diffuso in tutta Europa e Asia), suini (dal cinghiale), stabulati in recinti all’interno del villaggio e in alcuni casi anche nelle grotte. Gli animali allevati fornivano carne ma anche latte, oltre a numerose materie prime come pelle, osso, tendine e budello.
Il cane, probabilmente domesticato già dal Paleolitico Superiore, era un valido aiuto durante la caccia, ancora ampiamente praticata, e lo spostamento verso i pascoli degli animali domestici.
Si continuava però anche a pescare e a cacciare animali selvatici, soprattutto di lepri, cervi, caprioli, cinghiali e animali da pelliccia. La caccia veniva praticata con l’ausilio di arco, frecce e lance, mentre per la pesca si utilizzavano reti, nasse, ami e arpioni.
Pietra scheggiata
Gli oggetti in pietra scheggiata ritrovati a Colmaggiore sono tutti in selce. La selce è una roccia sedimentaria che si è formata a seguito dell’accumulo di organismi dal guscio siliceo sui fondali marini di milioni di anni fa. La si può trovare sotto forma di strati nelle pareti di roccia o in blocchi chiamati arnioni, trasportati a valle dai fiumi o dai movimenti dei ghiacciai. In base alla zona di raccolta può avere colori diversi che vanno dal nero al grigio, al verde, giallo e rosso scuro.
La tecnica della scheggiatura prevede che il blocco di selce venga spezzato in schegge o lame utilizzando un percussore in pietra, in osso di animale o palco cervide. Questi supporti potevano poi essere trasformati in strumenti grazie al ritocco, staccando intenzionalmente piccole schegge dai margini.
In Preistoria questa tecnica veniva usata per produrre oggetti taglienti o appuntiti come lame di coltelli, punte di freccia, raschiatoi e grattatoi impiegati nella lavorazione della pelle e del legno, bulini per incidere. Nel Neolitico, con la selce si iniziano a produrre anche le lame dei falcetti, realizzati con un manico il legno curvo sul quale venivano incastrate e incollate più lame in successione. Il collante veniva realizzato con diverse tecniche: una delle più sfruttate prevedeva la combinazione di resina di conifere, cera d’api e un legante come la polvere di carbone.
La selce è anche una pietra focaia, in grado di produrre scintille se percossa con marcasite o pirite.
La scheggiatura della pietra fa parte delle tecniche che i nostri antenati padroneggiavano già dal Paleolitico e che ha una straordinaria continuità nel tempo, con variazioni che portano a una realizzazione di strumenti sempre più diversificati ed efficaci.
Pietra levigata
A partire dal Neolitico emerse la necessità di un nuovo strumento: l’ascia. L’ascia era indispensabile per tagliare gli alberi, quindi per ottenere la materia prima per costruire abitazioni e recinti, ma anche per creare lo spazio libero per villaggi, campi coltivati e pascoli. Non potendo realizzare le lame delle asce in selce, dalla struttura vetrosa e fragile, i nostri antenati neolitici cominciarono a sperimentare l’uso di altre pietre, come quelle metamorfiche appartenenti alla famiglia delle pietre verdi, della quale fanno parte i serpentini, la giadeite e gli scisti. Naturalmente, essendo pietre diverse dalla selce, necessitavano di una differente lavorazione e la forma veniva ottenuta con la tecnica della levigatura, una delle industrie più caratteristiche del Neolitico. La raccolta delle pietre verdi avveniva principalmente nei letti dei fiumi. Il blocco veniva ridotto di dimensioni con una prima sbozzatura e poi bocciardato per definirne la forma. La lama veniva poi levigata sfregandola contro una pietra ruvida, come l’arenaria, agevolando l’operazione con aggiunta di sabbia e acqua. Infine, dopo molte ore di lavoro, la lama veniva immanicata in modo perpendicolare su un supporto di legno o palco di cervo.
Ceramica
La lavorazione dell’argilla per ottenere oggetti in ceramica fa parte delle novità che caratterizzano il Neolitico ed è testimoniata a Colmaggiore da moltissimi frammenti di contenitori, da due fusaiole (una sorta di ciambelle forate che compongono il fuso da filatura) e un peso da telaio. L’argilla è una roccia sedimentaria dalla grana molto fine presente in tutto il mondo. Dopo la raccolta, la materia prima veniva pulita dalle impurità e mescolata a un degrassante minerale, ad esempio sabbia o ghiaia, per renderla più facilmente lavorabile e facilitare la cottura. La forma dei vasi si poteva ottenere con tecniche diverse: a pressione, modellando il contenitore solo con le mani partendo da una palla, oppure con la tecnica del “colombino”, sovrapponendo salsicciotti o strisce di materiale per creare le pareti del vaso (che poi veniva lasciato alla perfezione) o ancora con lo stampo, premendo il materiale contro una forma. La decorazione poteva avvenire sulla superficie ancora morbida dell’argilla fresca incidendo motivi geometrici con strumenti appuntiti o con le unghie oppure poteva essere ottenuta pizzicando la superficie o aggiungendo piccoli dettagli sporgenti. Alcuni motivi potevano in alternativa essere anche graffiti sull'argilla asciutta. I vasi venivano lasciati, poi fatti asciugare alla perfezione e infine cotti, inizialmente in fossa e poi in forni con volta in terra, in cui la temperatura poteva raggiungere i 750-800 gradi. Questo lungo e faticoso lavoro veniva fatto per ottenere contenitori impermeabili e resistenti al calore, che potevano perciò essere usati a contatto con il fuoco. Con la ceramica nel Neolitico venivano realizzate anche fusaiole, pesi da telaio, statuine, perline e timbri denominati “pintadere”, dei veri e propri stampi con motivi a rilievo che è stato ipotizzato potessero servire a decorare la pelle con tatuaggi, oppure gli abiti. Forme, decorazioni e tecniche di produzione dell’impasto variavano in base alla funzione del contenitore ma anche in base al luogo e al momento in cui veniva prodotto. Questo rende i resti ceramici preziosissimi per gli archeologi che spesso li usano come guida per datare gli strati riconosciuti durante gli scavi archeologici. I vasi più antichi rinvenuti a Colmaggiore si riferiscono all’ultima fase della Cultura dei Vasi a Bocca Quadrata.
Tessitura
La tessitura è una grande invenzione neolitica, di cui parleremo nella palafitta successiva, dimostrando il funzionamento del telaio.
Approfondimento: il focolare
Il focolare, creato con una fossa poco profonda circondata da pietre o da una base in argilla, era posto al centro dell’abitazione così da illuminare e scaldare in maniera uniforme l’ambiente domestico e ridurre il rischio di incendio. L’accensione del fuoco veniva praticata con la tecnica dello strofinio, con bastoni ed appositi archetti, oppure tramite la percussione delle pietre focaie (selce e marcasite oppure selce e pirite). Le scintille prodotte dalle pietre focaie venivano catturate facendole cadere sulla polverina ottenuta sminuzzando il Fomes fomentarius, fungo legnoso ricco di salnitro e tannini che cresce sui tronchi degli alberi in marcescenza (specialmente faggi e betulle). Appena una scintilla cadeva sull’esca di fungo triturato creando una brace, la si adagiava su un nido di materiale secco sul quale veniva soffiata aria finché comparivano le prime fiamme. Il nido infiammato veniva quindi posizionato all’interno del focolare e alimentato gradualmente con ramoscelli e bastoncini.
Circa 5000 anni fa, con l’Età del Rame o Eneolitico, sono testimoniate le prime pratiche di metallurgia, ma per molti aspetti la vita quotidiana rimase simile a quella del Neolitico. Il rame è un materiale di non facile reperimento, che veniva estratto da minerali come la cuprite, la calcopirite, la malachite e l’azzurrite, la cui lavorazione richiedeva grande abilità e conoscenze tecniche. Insieme alla diffusione di questo metallo si svilupparono quindi anche alcuni cambiamenti sociali, legati all’importanza che assumevano le popolazioni che abitavano vicino alle zone di approvvigionamento, al prestigio che caratterizzava le persone che possedevano oggetti realizzati in questo materiale e al rispetto che meritavano gli individui che avevano la capacità di estrarlo e lavorarlo. Alcuni minerali richiedevano una fase di arrostimento in appositi forni, prima della loro lavorazione per estrarre il metallo. La fusione del metallo era praticata con appositi crogioli di terracotta posizionati sul fuoco, alimentato soffiando aria per mezzo di soffiatoi in materiale vegetale cavo protetto nella parte a contatto col fuoco da un ugello in terracotta, indispensabili per portare la temperatura fra gli 800 e i 1000 gradi. Il metallo liquido veniva versato all’interno di stampi in terracotta o pietra costituiti da un’unica matrice o composti da due parti simmetriche. Una volta solidificato ed estratto dallo stampo, l’oggetto veniva rifinito e immanicato. Essendo molto morbido, il rame poteva anche essere lavorato con la battitura, ma andava comunque riscaldato durante il procedimento per evitare che si rompesse. Il rame si diffuse gradualmente e non sostituì fin da subito la pietra levigata, con la quale si continuavano a produrre asce che assunsero in questo periodo la tipica forma a “martello”, con il manico infilato in una lama a più spessa e forata da parte a parte. Rimase insostituibile anche la selce, utile a produrre oggetti affilati, così come la maggior parte delle materie prime usate anche nei periodi precedenti. Con il rame si iniziano a produrre asce, pugnali di prestigio e piccoli gioielli. Dalla fine dell’età del Rame sono testimoniate l’aratura con gli aratri a traino e la pastorizia transumante, che indica una maggiore mobilità da parte dei gruppi umani rispetto al Neolitico.
Nella fase finale dell’età del Rame (2.500-2.300 a.C.) si diffuse in Italia Settentrionale un tipico contenitore di ceramica denominato vaso campaniforme, poiché simile nella forma ad una campana rovesciata, dall’ampia apertura svasata, usato per contenere i liquidi e spesso rotto volontariamente a scopo rituale o inserito nei contesti funebri.
Approfondimento: la tessitura
A partire dal Neolitico, nei siti archeologici si possono riconoscere le tracce della tessitura al telaio. A Colmaggiore sono state rinvenute una fusaiola e un peso da telaio. La presenza dei telai testimonia che gli abiti venivano realizzati con le stoffe, oltre che con pelli e pellicce di animale. I telai servivano ad agevolare e velocizzare l’intreccio di fili verticali (ordito) e fili orizzontali (trama). Per tutto il Neolitico e l’età del Rame nel Nord Italia il filo veniva realizzato con fibre vegetali, soprattutto lino, appositamente coltivato. Gli steli venivano fatti essiccare dopo la raccolta e poi battuti con mazze di legno o pietre. Lo scopo era quello di rompere la parte più esterna e dura della pianta, che poteva poi essere eliminata con pettini in legno o osso. La fibra veniva poi filata con l’aiuto dei fusi, formati da un bastoncino a cui veniva fissata una fusaiola in terracotta, legno o pietra per favorirne il movimento rotatorio e produrre velocemente grandi quantità di filo. Una volta ottenuto il tessuto, gli abiti venivano modellati cucendoli con aghi in osso. Le stoffe finite oppure i filati potevano anche essere tinti con colori vegetali o dipinti con colori minerali. Lo sfruttamento della lana è testimoniato con certezza solo a partire dall’età del Bronzo.
Approfondimento: i materiali di origine animale
Gli animali, oltre alla carne, fornivano anche materie prime importantissime come l’osso, la pelle, i tendini e il budello, il cui utilizzo e lavorazione è testimoniato fin dal Paleolitico. I cervidi possono fornire anche palco e i bovidi il corno. La lavorazione dell’osso animale e del palco di cervide è testimoniata anche dai reperti di Colmaggiore, dove sono stati riconosciuti spatole, punteruoli e ritoccatori per la selce. In Preistoria con l’osso e il palco si ottenevano anche zappe, gioielli ornamentali, aghi, ami e arpioni per la pesca. La pelle in passato veniva conciata per aumentare la conservazione e renderla adatta a produrre vestiti o altre parti dell’abbigliamento come calzature e cinture, contenitori come zaini, borse e faretre per le frecce. Durante il Paleolitico la pelle era anche il materiale utilizzato per costruire ripari come le tende o per delimitare gli spazi in grotte e ripari sottoroccia e in tutta la Preistoria si può immaginare venisse utilizzata per produrre giacigli morbidi e asciutti. Non sono ancora note le sostanze usate nella concia, ma esistono diverse ipotesi basate su confronti con periodi più recenti. L’utilizzo di tendini e budello per la creazione di corde resistenti solitamente è testimoniata indirettamente dalle tracce di selce rinvenute sulle ossa.
Approfondimento: il trapano a volano
Il trapano a volano è formato da un’asticella verticale che si infila in una barra orizzontale in legno, ancorato allo stesso con un filo fissato su entrambe le estremità. Nella parte bassa dell’asticella è fissato un volano, in questo caso una sorta di disco forato in legno e in fondo viene attaccato un bulino di selce. Il filo viene attorcigliato all’asticella verticale, facendo salire la barra verso l’alto, quindi spingendo la barra verso il basso il movimento del filo fa girare lo strumento. Il volano restituisce la spinta verso l’alto e permette al filo di attorcigliarsi nuovamente: con questo sistema l’asta ruota anche molto velocemente in senso orario e antiorario, permettendo alla punta di selce di praticare i fori.
Durante l’età del Bronzo, a partire da circa 3500 anni fa, l’Uomo inventò una lega ottenuta mescolando il rame con lo stagno, creando un metallo più duro e resistente. Lo stagno si estrae dalla cassiterite, proveniente dall’Europa settentrionale. A partire da questo momento nei siti archeologici si trovano anche oggetti provenienti da territori lontani, a testimonianza di scambi sempre più a lungo raggio. Dal punto di vista tecnologico, venne introdotto il mantice, uno strumento costituito da due sacche di pelle che soffiavano aria nelle fosse di fusione, riducendo così il tempo per raggiungere le alte temperature necessarie alla fusione, che potevano toccare il 1200 gradi. È stato ipotizzato che per gli stampi, oltre a terracotta e pietra, potesse essere utilizzata anche la sabbia compattata. Con il bronzo venivano confezionati utensili di uso quotidiano come le asce, ma anche oggetti di ornamento. La percentuale di stagno all’interno della lega dipendeva dal tipo di oggetto che si voleva ottenere: percentuali inferiori (intorno all’8%) garantivano una buona elasticità e resistenza, utile agli attrezzi di lavoro, percentuali maggiori (intorno al 12%) rendevano gli oggetti più fragili e più lucenti e venivano preferite per gli oggetti ornamentali. I reperti provenienti dai siti archeologici fanno pensare anche a sempre più profondi cambiamenti sociali. A partire dalla fine dell’età del Rame, oltre agli utensili di uso quotidiano, gli archeologi iniziano a riconoscere le prime armi, come lance con la punta in metallo, alabarde e spade. Oggetti come questi, sempre più frequenti nell’età del Bronzo, testimoniano scontri e guerre fra villaggi, forse dovuti ad un aumento di popolazione legato al miglioramento delle condizioni di vita, alla volontà di controllo di alcuni territori e materie prime o ai maggiori spostamenti lungo le principali vie di scambio. Si assiste inoltre ad un periodo di grande crisi, durante il quale i villaggi costruiti nelle vallate vennero abbandonati e cominciarono a comparire per motivi difensivi i primi insediamenti fortificati e in zone più elevate, i cosiddetti castellieri. Le armi in bronzo a volte vengono rinvenute in contesti rituali, gettate nei laghi, nei fiumi o in aree di risorgiva come offerte votive durante riti religiosi oppure come corredo nelle sepolture dei guerrieri. Il viaggio finisce in questa palafitta perché poco dopo l’inizio dell’età del Bronzo anche il sito di Colmaggiore venne abbandonato, forse per costruire un nuovo insediamento in una zona più strategica.
Approfondimento: ascolto degli strumenti musicali a fiato (tromba in conchiglia e corno)